Pubblicato su politicadomani Num 86 - Dicembre 2008

Lettera aperta di un’insegnante
I ragazzi del don Guanella “se li conosci li ami Bocca, provi anche lei”

Il 28 ottobre del 1994 Avvenire pubblicava a pagina sette la lettera di un’insegnante scritta in punta di penna come risposta ad un articolo di Giorgio Bocca apparso sulla stampa nazionale, a cui il quotidiano aveva dedicato un commento. Quella lettera, che qui viene riprodotta, toccava dal punto di vista della esperienza personale il tema del diritto alla vita e alla felicità, pur in mezzo a condizioni di grave sofferenza e di totale dipendenza

 

Caro Direttore,
ho appena iniziato a leggere il commento intitolato «Cottolengo, l’incerto umanesimo di Bocca» del 26 ottobre, solo la prima frase, quella di Giorgio Bocca riportata dal suo giornale, e subito ho sentito forte la necessità di scriverle, anche se non è nelle mie abitudini. Sono insegnante, ma la vita mi ha concesso di fare esperienze diverse, in ambienti diversi, in Italia e all’estero, e tutte ricche, pienamente appaganti, sia quelle positive, sia quelle negative.
Ce ne è una tuttavia che, a distanza di anni, non cessa in alcun modo di ripresentarsi a me viva, ricca, pregnante nella sua essenzialità: la mia prima esperienza di insegnamento continuato (si parlava allora di incarico a tempo indeterminato) avuta insegnando ai «ragazzi» dell’Istituto Don Guanella di Roma.
Ricordo l’esitazione, quando mi fu proposto questo incarico (era il 1973), il mio andare con la mente alle immagini di quelle creature che talvolta vedevo in tv e di cui non riuscivo a sostenere la vista, la sensazione di paura, di ripulsa a livello fisico che provavo. Ricordo poi la voce gentile e il tono semplice con cui, da quella che poi divenne la mia preside, mi fu proposto di accettare quell’incarico con un «vai a vedere, prova».
Ricordo lo stato di confusione mentale che provai quando, un pomeriggio di ottobre, decisi di andare a vedere e lì, dopo aver parcheggiato nel cortile dell’istituto, entrai e mi trovai subito nel mezzo di una festa in cui tutti festeggiavano con tutti, infermieri, assistenti sociali, medici, fisioterapisti, ospiti, malati, sacerdoti. Fui subito circondata, piccola persona capitata lì, giovane, con i lunghi capelli biondi, fui presa per la mano e accarezzata da quei volti il cui sguardo, sia pure solo in televisione, non riuscivo a sostenere. Ricordo lo smarrimento e la confusione, tanto da non essere più capace di distinguere fra normali e anormali. Ricordo poi un’altra voce serena e premurosa, proveniente da un volto che, nel mio stato di agitazione, avevo scambiato per uno dei malati, un sacerdote che mi diceva di non aver paura perché il loro venirmi incontro e circondarmi e toccarmi era segno di affetto, «loro esprimono così la loro gioia, è così che fanno capire di essere contenti», mi spiegava. Tornai a casa e decisi di provare.
Passai con loro, al Don Guanella, tre anni fra i più belli e più significativi della mia vita, tre soli anni che hanno segnato profondamente la mia esperienza, il mio modo di pensare e di comunicare con la gente, la mia scala di valori.
Ma non sono stati tanto i miei «ragazzi», pure stupendi, quelli che più hanno contribuito a questo (i miei «ragazzi» facevano le scuole medie, allora, ed erano fra i meno gravi dell’istituto) quanto gli altri, alcuni di quelli più gravi, quelli che nei giorni di sole stavano sul patio, seduti sui loro alti seggioloni, con il loro corpo piccolo piccolo e la loro testa così grande, che vedendomi entrare mi sorridevano con i loro occhi stupendi e il loro sorriso felice dicendo «ecco Maria»; e, oltre a loro, un altro almeno di quei «mostri», che conobbi appena, che non aveva nessuna autonomia di movimento per il suo corpo tutto deforme; e anche il suo viso era deforme e non poteva parlare con noi, ma io sapevo che scriveva poesie, anzi dettava poesie perché qualcuno lì riusciva a comunicare con lui. Anche quel corpo deforme, quel viso deforme, su quel lettino con le ruote mi salutava quando ci incontravamo e nei suoi occhi c’era sempre un canto di gioia alla vita.
Ho terminato di leggere il fondo solo ora. Perché il signor Giorgio Bocca non prova a lavorare e a vivere un po’ di tempo con queste persone? O forse non è più abbastanza giovane per farlo?

 

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